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L'oro e le gemme dei veneziani
il relitto dell'isola di Ulbo
di Pietro Faggioli - foto di Giovanni Alban
pubblicato su "Immersione rapida M.A.R.E" anno II, n. 12 - Marzo
Aprile 2002 - pp. 80-87
Per gentile concessione del Direttore Responsabile Marcello Toja
I veneziani, tutti gli anni, inviavano verso Levante due flotte mercantili, dette «Mude». Una partiva in primavera inoltrata, l'altra in autunno.
Obiettivo: consegnare nei porti del mondo bizantino ed arabo, quanto i mercanti avevano incettato nell'Europa continentale e, al ritorno, portare in occidente le ricche merci dell'Oriente.
Erano finiti i tempi nei quali la Serenissima doveva vivere con il mercato del sale. Fu infatti il sale, a creare l'enorme fortuna della città: prima con la costruzione in laguna delle grandi saline, poi con l'acquisto o la conquista di quelle esistenti lungo le coste dalmate o italiane.
Raggiunto il monopolio, e dovendo rifornire tutta l'Europa, si dovette procedere con l'acquisto del sale nelle Puglie, in Sardegna, in Nord Africa, a Cipro e nelle Baleari.
Nel 1281, fu addirittura promulgata un'ordinanza, secondo la quale, gli armatori impegnati in commerci d'esportazione, dovevano assolutamente rientrare a Venezia con carichi di sale che, oltre a svolgere le funzioni di zavorra, garantivano guadagni supplementari alle grandi navi mercantili, solitamente, poco cariche nei viaggi di ritorno. Oltre al sale, giunsero da Sud, i grandi carichi di grano necessari a sfamare i popoli europei, alle prese con un notevole aumento demografico.
Infine, la fortuna venne anche dalle Crociate.
Bisognava trasportare a Levante i soldati, i cavalieri, le merci, le macchine da guerra, che confluivano a Venezia da tutta Europa. La città, aveva la più importante flotta del Mediterraneo, e mise a disposizione le sue navi. Un ulteriore flusso d'oro confluì verso la Serenissima.
Frequentando quei lontani porti, i mercanti veneziani si resero conto subito, delle merci che avrebbero potuto interessare alle ricchissime corti europee, e aprirono fondaci e magazzini.
Frequentando i mercati, furono ben attenti a non inimicarsi nessuna delle parti in lotta. Loro erano solo dei mercanti al servizio dell'una e dell'altra patte. In quell'anno di grazia del Signore, si era ormai nel 1417, tutto sembrava procedere nel migliore dei modi.
La «Muda» di primavera, era andata ed era tornata; le merci erano state consegnate ai mercanti, che le avevano rivendute con lauti guadagni.
Ai primi di settembre affrontò il mare la flotta d'autunno.
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Le navi tonde, le cocche e le caracche, con i loro goffi scafi grossi e rotondeggianti, atte a contenere tante merci, cominciarono a discendere l'Adriatico, sfruttando la corrente che arriva, lentamente, fino a Brindisi.
Le sottili e micidiali galee, stavano schierate ai lati della flotta mercantile, pronte a intervenire e a proteggerla, non appena qualche vela sconosciuta fosse apparsa all'orizzonte. Dietro ad ogni scoglio, da qualsiasi anfratto della costa, come lupi famelici, potevano piombare sulle navi tonde gli sciabecchi, oppure le galee dei pirati tunisini e algerini, che solitamente, con abile manovra, isolavano una delle navi, li catturavano e la portavano nei loro lontani porti.
In ogni caso, quella volta tutto procedette regolarmente e in Egeo, doppiato Capo Matapan, la flotta si divise. Una parte delle navi si diresse verso Costantinopoli, l'altra, la più numerosa, scese verso Creta per arrivare ad Alessandria d'Egitto, che era anche il punto terminale della «via della seta». Stoffe preziose venivano portate dalle carovane partite dal lontano Katai.
Erano giunti in quantità da Ilkhan, anche splendidi broccati persiani, sogno di tutti i regnanti dell'occidente. E poi le perle, del Mar Rosso, le più belle.
Nel Barein la pesca era stata favolosa quell'anno, metà della raccolta era stata acquistata dai mercanti indiani (anche allora le donne indiane facevano follie per le perle), ma i bravi mercanti della Serenissima erano riusciti ad accaparrarsi l'altro cinquanta per cento.
E poi l'oro, splendidi gioielli filigrane limitate, ma mai superate. Poi ancora, i vetri, i cristalli da esibire a corte.
Le pietre rare, preziose, riempivano gli scrigni: smeraldi, rubini, pietre mai viste prima, e trovate chissà quali deserti. Poi incenso, aromi di piante rare, cibi e profumi.
Infine il pepe, costosissimo e ricercato, tanto da essere considerato moneta sonante e universale; lo zenzero, il cumino, la menta, la cannella, il nardo, i chiodi di garofano, il benzoino, il sandalo, l'aloe.
Navi intere, caricate del preziosissimo zucchero da canna, che era prodotto nel delta del Nilo e ancora sacchi e sacchi di pistacchi, pinoli, mandorle, nocciole. I facchini caricavano in continuazione grosse partite d'allume, di robbia, di gommalacca.
Un lavorare frenetico, le navi dovevano essere pronte per la metà di Novembre; dovevano attraversare il Mediterraneo, incontrare la flotta di Costantinopoli, del Mar Nero (che a sua volta era carica di pelli raccolte nelle coste del Mar d'Azov, di pesce salato, di caviale e delle merci, che per altre strade carovaniere, erano giunte dall'India e dalla Cina); ma, soprattutto, dovevano tutte essere a Venezia per i primi giorni di Dicembre.
L'Europa aspettava quei carichi per rifornire i mercanti, i commercianti, le botteghe ed i negozi, in modo che ricca gente potesse fare, come ogni anno, i regali di Natale. Quell'anno però il mare si guastò prima del tempo: nubi tempestose e venti contrari impedivano alla flotta di prendere la rotta di ritorno.
Messaggeri furono inviati da Venezia al Comandante la flotta perché si decidesse a partire, ma l'Ammiraglio, il grande Nicolò Barbarigo prendeva tempo: nessun problema per le sue galee militari, con equipaggi addestrati e sperimentati, ma quelle cocche e quelle goffe caracche, sovraccariche, come potevano affrontare un mare simile!
Finalmente, arrivò un attimo di tregua dal maltempo e le navi poterono partire. Fu raggiunta Creta, poi la Grecia, la risalirono e a Corfù furono informati che la flotta del Mar Nero, stanca di aspettare, aveva proseguito da sola ed era già in vista di Venezia.
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IL NAUFRAGIO
L'effetto dei cento remi che si muovevano come uno solo era realmente bello. Per l'uomo di Venezia, le «ali bianche» di una nave da guerra, non sono le bianche vele delle galee, ma i suoi tanti remi. Neanche un gabbiano in volo, che tutti gli amanti del mare considerano come l'emblema della perfezione dei movimenti, era più aggraziato e più bello di quelle galee.
Erano basse sull'acqua e infinitamente lunghe rispetto alla larghezza; sugli alberi inclinati, gli uomini non avevano alzato né vele, né «antenne» latine. Le dorature delle prore scintillavano, mentre le acque dell'Adriatico iniziavano a spumeggiare. Le galee navigavano con la forza dei remi, con una brezza moderata di prora ed il rosso ed oro del leone di Venezia ondeggiava, nelle bandiere, in testa all'albero, e a poppa di ognuna di esse.
Su... avanti... cantavano i rematori, con ritmo incessante, senza che le pale variassero di un millimetro la distanza fra di loro, per tutta la lunghezza della palata. Dalla prora di ogni galea, due lunghi cannoni, in caccia, erano puntati nella direzione verso quale procedevano le navi.
Ora che si avvicinavano all'Isola Skarda (allora Scarda) la cadenza della voga si era fatta notevolmente più lenta, dovevano aspettare le cocche, le caracche. Ed ecco il lento procedere delle navi da carico, con un timone unico, centrale, sporgente di poppa ed incentrato al dritto.
Un'unica grande vela quadra, che armava il grosso albero centrale che terminava con una capace coffa a coppa. Un corto bompresso, due «castelli», l'uno a prora, l'altro a poppa.
In mezzo alla moltitudine di navi, alcune caracche più grandi, con due o tre alberi, cariche di zucchero fino all'inverosimile. Poi altre galee, che come cani da pastore, scortavano il gregge. I vogatori, gli uomini ai remi, erano invisibili dietro alle murate mentre a poppa vi erano due uomini alla barra del timone ed un piccolo gruppo, gli ufficiali, chiacchierava pigramente, con le divise i cui gradi sfavillavano all'ultimo sole della giornata. il mare, improvvisamente cambiò umore.
Si videro le galee mettere il rostro in un frangente, che avvolse i «castelli» in nembi di acqua. I rei di un lato «siarono» e quelli del lato opposto seguitarono a vogare. Tutti i «legni» cominciarono a rollare paurosamente, e non chiesero altro che di mettere la prora nel canale tra le due Isole di Premuda e Skarda per raggiungere il mare dell'Isola di Ulbo, ben riparato.
Velocissime, le galee, in un attimo scomparvero alla vista, e trovarono dietro alle isole il riparo che cercavano.
Il problema si fece invece drammatico per le navi mercantili: goffe e sovraccariche con i pochi uomini di equipaggio, che cercavano di ridurre le vele e di tenere la prua al mare.
Scese la notte e la situazione si fece ancora più drammatica; tra i violenti acquazzoni, era quasi impossibile distinguere le vicine isole dal mare e sembrava quasi impossibile che quei legni potessero trovare la strada per raggiungere Ulbo.
Una caracca si schiantò contro gli scogli dell'Isola Scarda, altre navi presero i loro rischi, e cercarono miglior fortuna verso il largo (di alcune non si seppe più nulla).
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Le due cocche che avevano a bordo le merci più preziose (erano le più leggere e quindi le più manovriere) riuscirono ad infilarsi nello stretto canale che divide Premuda da Scarda. In un mare più calmo ma sempre mosso, gli uomini sapevano di avere davanti l'Isola Silba e quella di Ulbo. Scelsero di rifugiarsi nella seconda e puntarono verso Ovest.
Purtroppo per loro, a pelo acqua vi erano (vi sono anche ora) tre lunghi scogli dalla cima piatta (Zapadni, Srednji e Juznj).
Di notte, con mare mosso, durante un temporale era impossibile vederli. Uno schianto, gli alberi delle due navi che crollano, urla disperate dei marinai che si vedono perduti ed il mare, le onde, la tempesta che inghiotte tutto.
Si perdono le perle del Barein, gli smeraldi indiani, gli zaffiri, i topazi, i lapislazzuli, le pietre più rare trovate quell'anno nel deserto. A Venezia, l'Ammiraglio Nicolò Barbarigo, il Comandante della flotta, fu messo sotto inchiesta e condannato a cedere di sua tasca ben 10.000 ducati d'oro. Le Assicurazioni dovettero rifondere ai mercanti altri 30.000 ducati d'oro. Tale era il valore dei preziosi perduti che giacciono ora ad una quarantina di metri di profondità davanti all'Isola Olib, forse presso lo scoglio Juzni.
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L'IMMERSIONE
Come ogni mattina, anche oggi iniziamo il nostro vagabondare per le isole del Quarnero. Abbiamo caricato sul gommone tutto il necessario per vivere una giornata sopra e sottacqua.
Il GPS ci guida nella rotta ed il punto esatto è stampato nella mente della nostra guida, perché meta di una vecchia immersione, il tempo è splendido, il mare sembra una tavola, il paesaggio è sublime ed il nostro gommone, lo «sbaretoon» (nome derivato dal color verde lucertola e dalla velocità, agilità e potenza che esprime nel superare ogni ostacolo), va che è una favola.
In prossimità del «posto del tesoro», Gianni abbandona il satellitare, rallenta a comincia ad osservare l'isola che ora abbiamo di prua. Fa il punto a vista (che a suo dire è più sicuro di quello del GPS) e, prendendolo in giro, gli ricordiamo le nostre prime immersioni, i primi tempi in cui il punto era così definito: «il secondo condominio ad est, il campanile di Caorle a poppa e poi.. proviamo». Finalmente i riferimenti coincidono con i ricordi e gettiamo l'ancora.
In poco tempo siamo tutti in acqua ed il solito OK segna l'inizio della discesa lungo la cima dell'ancora, con a destra la parete di uno scoglio sommerso, e il fondo sabbioso a 30-35 in di profondità.
L'acqua è limpidissima. Giunti sul fondo, nonostante l'ottima visibilità non vedo nulla che possa assomigliare ai resti di un naufragio. Io sono vicino alla nostra ancora incastrata tra due rocce e mi rivolgo ai compagni d'immersione, con segni interrogativi.
Si avvicinano, e a gesti m'invitano ad elevare la mia quota di due o tre metri dal fondo. Poi mi indicano le rocce. Per la diversa prospettiva, la roccia cambia sagoma e vedo una grande ancora con vicino due enormi cannoni.
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La precisione del ritrovamento punto (a vista) del nostro amico è formidabile (alla faccia dell'elettronica).
Il mare ha assorbito, assimilato quegli oggetti umani, ma ad un occhio attento essi riprendono le loro forme originali. Ernesto mi indica una strana cosa: una palla di cannone a forma di pera.
La tocco, non è di metallo pesante, ma leggera, forse porosa, e su un lato ha un occhiello.
La nostra guida si avvicina ed osserva, poi m'invita a posarla e, a gesti, mi ricorda che è l'ora delle fotografie per documentare il sito, alla strana palla penseremo poi.
Foto, tante fotografie, ma poi scaveremo la sabbia per cercare il tesoro dei veneziani?
Purtroppo non c'è più tempo per piantare il nostro coltello in quella sabbia durissima, l'ago del manometro è puntato verso la soglia di attenzione ed i computer c'invitano, con i loro suoni, alla realtà.
Con tranquillità risaliamo e ci avviamo alla superficie.
Abbiamo trovato due o tre enormi cannoni, un'ancora, una parete, un astice ed una strana cosa non identificata (lasciata in situ).
Sembrava un proiettile.. .ma era così leggero. Domani ritorneremo.
Purtroppo il tempo si guasta, e la nostra certezza di tornare ai cannoni dello scoglio sommerso, diventa una pia illusione. Forse è meglio così; restano ancora tante cose da cercare, migliaia di siti strani da verificare e tanti «tesori veneziani» da sognare.
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Nota della redazione di www.archeosub.it:
per il contenuto, questo articolo è stato sottoposto anche a discussione nel forum in quanto estremamente interessante e significativo.
vedi anche l'articolo: Il relitto dell'isola di Ulbo (da "Atlante dei Tesori sommersi" 1995)
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